I cento passi (2000)

di Marcello Moriondo

È sempre più difficile per il cinema presentare l’’Italia
di oggi. I mutamenti radicali e veloci della società
datano inesorabilmente le pellicole ancora prima della
loro uscita. La televisione e gli altri media sono
mostruosamente ancorati al quotidiano, gli
approfondimenti con riferimenti alla storia, anche
recente, del nostro Paese sono sempre più rari e
comunque il revisionismo distorce la memoria. I critici
non amano i film che trattano argomenti sociali, se non
li fa Spielberg o qualche altra star hollywoodiana, e il
pubblico li evita. Risulta quindi coraggiosa la scelta
fatta da Marco Tullio Giordana di immergersi nel
nostro passato prossimo, rispolverando la storia di una
vittima della mafia dimenticata. Il film è stato
presentato alla 57a Mostra d’’Arte cinematografica di
Venezia e scelto a rappresentare l’’Italia alle
candidature degli Oscar.
Il 9 maggio 1978 le Brigate Rosse fanno ritrovare il
corpo senza vita di Aldo Moro. Tutti i mezzi di
informazione dedicano la maggior parte del loro spazio
a questa notizia. In pochi si accorgono che lo stesso
giorno un ragazzo siciliano di 30 anni, Peppino
Impastato, candidato in Democrazia Proletaria, salta in
aria con sei chili di tritolo sui binari della ferrovia. È
una situazione mediatica che ricorda un inquietante
fatto avvenuto in occasione del rapimento del
Presidente della DC, solo due mesi prima. Due giorni
dopo il sequestro, Fausto e Jaio, due ragazzi del
Leoncavallo, venivano barbaramente uccisi da due
killer, probabilmente mandati da Roma da pezzi deviati
dello Stato, legati all’’estrema destra. Anche in questo
caso, la notizia era stata oscurata dai media, le cui
notizie erano incentrate sul caso Moro. Una terribile e
inquietante coincidenza.
Solo venti anni dopo l’’assassinio di Peppino Impastato,
viene rinviato a giudizio Tano Badalamenti quale
mandante dell’’assassinio. Sono i cento passi del titolo a
separare l’’abitazione del giovane da quella di
Badalamenti, cento passi che Peppino si è sempre
rifiutato, metaforicamente, di percorrere, sbeffeggiando
altresì attraverso l’’emittente libera Radio Aut la mafia e
lo stesso boss, chiamato satiricamente Tano Seduto.
Claudio Fava (altro orfano per mano mafiosa), Monica Zapelli e Marco Tullio Giordana sono stati premiati
con merito per la miglior sceneggiatura alla Mostra
veneziana.

Prossimamente nel corso del tempo

di Marcello Moriondo

Il cinema si diverte a giocare col tempo, a portarci nel passato, a entrare nel presente, ma anche a spingersi oltre, verso il futuro, quel futuro ignoto che si sforza di immaginare. Le uscite cinematografiche annunciate per la prossima stagione ne sono l’esempio lampante, si descrivono i tempi andati, quelli attuali e quelli di un ipotetico domani.

Ieri

Ridley Scott traccia un ritratto di Napoleon, dai fasti al rovinoso crollo: Joaquin Phoenix ci mette la faccia, Martin Phipps le musiche.

Scorsese è passato da Cannes col suo Killers of the Flower Moon, in cui racconta di crimini ambientati nei primi Anni ’20; dal romanzo di David Graan, con le musiche di Robbie Robertson e i cantanti country Jason Isbell e Sturgill Simpson nel cast.

Nel 1928 Wirginia Woolf ha scritto un capolavoro, ripreso poi da Paul B. Preciado in Orlando, my Political Biography.

Samuel Beckett visto dal regista James Marsh: il grande drammaturgo, il Premio Nobel, il partigiano, il suo incontro con James Joyce, nel film Dance First, Think Later.

Agatha Christie, grazie al suo Poirot e la strage degli innocenti, ispira ancora una volta Kenneth Branagh in Assassinio a Venezia, ambientato nel secondo dopoguerra.

Saverio Costanzo, in Finalmente l’alba, crea una fiaba tinta di giallo ambientata nel 1953 a Cinecittà, a ridosso del famigerato “Caso Montesi”.

Wes Anderson ci porta nel deserto del Nevada nel 1955, dove una varia umanità è confluita dopo la caduta di un asteroide gigante. È Asteroid City; Johnny Duncan interpreta Last train to San Fernando, Tex Ritter High Noon, Slim Whitman Indian Love Call, Tennesseee Ernie Ford Sixteen Tons, Poi c’è Il Canone di Pachelbel, un sacco di country e non solo.

Nel 1957, per superare la crisi economica e le tragedie familiari, l’ex pilota Ferrari si inventa la Mille Miglia in Ferrari di Michael Mann

La chimera di Alice Rohrwacher ci catapulta negli Anni ’80, tra archeologi e tombaroli, accompagnati da Vado al massimo di Vasco Rossi, Il tango delle capinere e Gli uccelli di Franco Battiato.

Madame Chirac voleva essere presidente, come il marito, non lo sarà ma diventerà un’importante figura mediatica in Bernadette – Le première dame, di Léa Doménach.

Roberta Torre omaggia Monica vitti raccontando, in Mi fanno male i capelli, di una donna che, perdendo la memoria, si identifica nei film della grande attrice.

Il 31 dicembre 1999, in un castello sulle Alpi Svizzere si festeggia il nuovo millennio e succede di tutto: la regia è di Roman Polanski e il film è The Palace.

Isabelle Huppert è la sindacalista Maureen Kearney nel thriller, basato su fatti reali del 2012, Maureen K. Di Jean-Paul Salomé.

Sei donne legate a Greenpeace stupirono tutto il mondo, scalando per protesta il grattacielo più alto d’Europa, lo Shard di Londra; era il 2013, il film The Climb, la regista Hayley Easton-Street.

Oggi

Il cinquantesimo lungometraggio di Woody Allen, Coup de Chance, a detta del regista dovrebbe essere il suo ultimo film, “un thriller romantico velenoso”.

Diabolik – Chi sei? è il terzo film dei Manetti bros. dedicato all’eroe senza tempo creato alle sorelle Giussani.

Paolo Virzì invece torna a Ventotene con Un altro ferragosto e gli stessi villeggianti del suo Ferie d’Agosto del 1996.

L’attrice Kasia Smutniak debutta alla regia raccontando dei muri vergognosi che proliferano nel suo Paese d’origine, la Polonia, in Mur.

Michel Gondry crea una storia quasi autobiografica in Il libro delle soluzioni; Sting interpreta sé stesso e ascoltiamo Gnossienne n. 1 di Erik Satie.

L’amour et les forêts di Valérie Donzelli è un dramma romantico che vira sul thriller, tratto dal libro di Éric Reinhardt; Johnny Nash interpreta Hold me tight, Barbara Du bout des lèvres, Paolo Conte Sirat Al Bunduqiyyah.

Due ragazze si mettono in viaggio per raggiungere Tallahassee, in Florida: è la prima regia di Ethan Coen senza il fratello Joel, Drive-Away Dolls.

Luca Guadagnino entra nei campi da tennis con Challenger: tre amici in competizione, non solo sportiva.

Domani

Il saggio del fisico Carlo Rovelli ha ispirato Liliana Cavani per L’ordine del tempo, cioè una notte verso la fine del mondo.

Cavalieri alieni sotto copertura scelgono il nord della Francia come teatro delle loro battaglie in L’Empire di Bruno Dumont.

The Marvels, ovvero tre super eroine di nuovo in azione dirette da Nia DaCosta; The Beastie Boys interpretano Intergalactic.

In un ipotetico futuro Léa Seydoux, torna alle sue precedenti vite in La Bête, di Bertrand Bonello.

Il canadese Denis Villeneuve annuncia una resa dei conti con il sequel Dune – Parte due.

Peter von Kant e Mon crime

Un regista, due film

di Marcello Moriondo

Appaiono quasi in contemporanea nelle sale due film di François Ozon: Mon crime – La colpevole sono io e Peter von Kant, del 2022, in concorso al Festival di Berlino.

Peter von Kant.

È un evidente omaggio a Rainer Werner Fassbinder, in cui Ozon inverte i ruoli riproponendo Le lacrime amare di Petra Von Kant in versione maschile, sapendo che il regista tedesco aveva messo in scena una storia quasi autobiografica trasformandola a sua volta al femminile. Quindi Ozon riporta tutto alle origini, scegliendo come attore protagonista Denis Menochet, che già aveva lavorato con lui in Nella casa e Grazie a Dio, plasmandolo sulla figura di Fassbinder.

Peter è un regista famoso, che vive col suo assistente Karl (Stefan Crépon). Quest’ultimo, più che un collaboratore è lo schiavetto personale di Peter, che non perde occasione per maltrattarlo anche in presenza di altri con vessazioni umilianti. Grazie a Sidonie (Isabelle Adjani), diventata una grande attrice grazie al contributo di Peter, il regista incontra Amir, giovane attore talentuoso, di cui si innamora perdutamente.

Mon crime.

Anni ’30, Parigi. L’attricetta poco talentuosa Madeleine Verdier (Nadia Tereszkiewicz) viene accusata ingiustamente dell’omicidio di un produttore. Messa alle strette da un inetto giudice istruttore (Fabrice Luchini) e dietro consiglio della sua amica e legale Pauline (Rebecca Marder), per evitare una pena maggiore si dichiara colpevole per legittima difesa. Peccato che da dietro l’angolo spunti una matura stella del cinema muto, Odette (Isabelle Huppert), che rivendica la paternità del crimine, considerando che la causa giudiziaria ha reso celebre e ricca Madaleine. Inizia un gioco di ruolo degno dei migliori vaudeville, dove tutti gli attori in campo, accusate, inquisitori, fiancheggiatori, cercano di uscirne senza danni. Forse solo il teatro può risolvere la situazione.

Il teatro.

Il teatro è da sempre fonte d’ispirazione per Ozon. Mon crime è tratto dallapiece di Georges Berr e Louis Verneuil; Gocce d’acqua su pietre roventi da Fassbinder; 8 donne e un mistero (2002)dalla piece di Robert Thomas; Potiche (2010) da Pierre Barillet e Jean-Pierre Grédy; Nella casa (2012) da Juan Mayorga; Frantz (2016) da Maurice Rostand. Peter Von Kant è un dramma che si consuma nella stessa stanza, come un’opera teatrale, appunto. Mon crime – La colpevole sono io apre con un sipario teatrale che si alza mostrando una piscina davanti a una casa, mentre la musica di Philippe Rombi suggerisce che in quel luogo qualcosa di grave deve essere accaduto. Vediamo l’attrice incriminata diverse volte sul palcoscenico, a teatro ma non solo.Persino l’aula di tribunale pare trasformarsi in teatro, dove le arringhe dell’accusa e la difesa dell’imputata diventano monologhi appassionati, tra i fischi del pubblico per l’accusa e gli scroscianti applausi per l’imputata.

Fassbinder.

Naturalmente il primo riferimento va a Peter von Kant, di cui conosciamo già l’origine.Il manifesto del film (non quello italiano) fa il verso a Querelle (1982) e anche la messa in scena ricorda i tratti del regista scomparso. Ozon ha asciugato un po’ delle lacrime amare, lasciando il posto all’ironia e alla leggerezza nella caratterizzazione dei personaggi, soprattutto in Karl. Hanna Schygulla che interpretava il ruolo di Karin nel dramma di Fassbinder, cioè il corrispondente al femminile di Amir, qui diventa la madre di Peter e Adjani canta Jeder Tötet Was Er Liebt, la versione tedesca di Each man kills the thing he love, che Jeanne Moreau cantava in Querelle. Canzone che a sua volta riprende il testo poetico di Oscar Wilde The Ballad of Reading Gaol. In Mon crime ci sono personaggi, soprattutto quelli femminili, che sarebbero piaciuti moltissimo a Fassbinder, e non manca un’altra citazione: alcuni frammenti di Les larmes amères de Marie-Antoinette, film muto interpretato da Odette. Anche nel già citato Gocce d’acqua su pietre roventi il dramma viene smussato e alleggerito grazie alla recitazione disinvolta e alle canzoni che i protagonisti interpretano nel loro balletto.Il titolo del corto La paura mangia l’anima (2007), è evidentemente rubato al film di Fassbinder del 1974.

Le musiche.

In Mon crime, oltre che delle musiche del fedele Philippe Ronbi, la colonna sonora si avvale di Le bonheur c’est un rien cantata da Danielle Darrieux dal film Mademoiselle Mozart (1935) di Yvan Noée Sans un mot, interpretata sempre dalla stessa attrice dal film La crise est finie (1934) di Robert Siodmak.

In Peter von Kant ci sono le musiche di Clément Ducol e naturalmente il pezzo interpretato da Isabelle Adjani, Jeder Tötet Was Er Liebt.

Cinema Speculation

Il cinema al cinema

di Marcello Moriondo

Leggendo le varie biografie di registi più o meno impegnati o di tendenza (qualcuno potrebbe classificarli “cult”), mi accorgo di aver iniziato il mio percorso di visione cinematografica qualche decennio prima di loro. Escludendo ovviamente personaggi tipo Hitchcock o Truffaut. Mia madre mi portava al cinema quando ero ancora in fasce. Diceva che me ne stavo tranquillo e zitto, con metà del corpo avvolto da bende tipo mummia. Naturalmente in seguito non ho smesso di frequentare le sale cinematografiche, anzi, ho reso più assiduo il mio contatto con il cinema.

Quentin Tarantino non è dissimile dagli altri suoi colleghi registi. Se Spielberg racconta nel suo The Fabelmans di essere stato a vedere Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille nel 1952, all’età di sei anni, Tarantino nel suo libro Cinema Speculation edito da La nave di Teseo e tradotto da un esperto di cinema quale Alberto Pezzotta, racconta di essere stato al Tiffany in Sunset Boulevard per la doppia proiezione di La guerra del cittadino Joe di John G. Avildsen e Senza un filo di classe di Carl Reiner, nel 1970, a sette anni, accompagnato dalla madre, unico bambino in una sala gremita di spettatori adulti.

Dalle pagine del suo libro si evince la passione per il mondo della celluloide. Tarantino racconta la strada che ha calpestato per arrivare alla regia; le interminabili ore passate al cinema, i primi anni in compagnia di un adulto, quindi ancora accompagnato, ma solo fino all’ingresso della sala. I primi viaggi nella fantasia in celluloide, Quentin li ha vissuti apprezzando soprattutto film d’azione, spesso insieme a un compagno di colore della madre, in cinema frequentati da neri. Proiettavano i cosiddetti blaxploitation, un termine che giocava con le parole black e exloitation: erano film realizzati a poco costo con interpreti neri, destinati a spettatori neri. Questa la premessa al volume di 420 pagine spassose, credo non solo per i cultori del cinema.

Ogni capitolo è un pretesto per raccontare un’epoca, quella hollywoodiana, attraverso i suoi personaggi e alle sue opere, nel bene e nel male, naturalmente sotto la lente soggettiva di Tarantino.

Quindi entra nel vivo con Bullit e il mito di Steve McQueen, confrontato con altre star del periodo, ma anche con spunti di gossip, con gli intrecci sentimentali al di fuori del set, che proseguono nei capitoli successivi con l’incontro con Ali MacGraw.

Si passa poi a Clint Eastwood e l’ispettore Callaghan, un pretesto per un’analisi sulla violenza poliziesca nei film, più volte tacciata di razzismo, quando non di fascismo.

Si prosegue cronologicamente con la New Hollywood degli anni Settanta: i registi contro il potere, Dennis Hopper, Altman, Bob Rafelson, Peckinpah, Friedkin, Cassavetes; i giovani innovatori, l’arrivo di Spielberg, Lucas, Coppola; gli hitchcockiani con le emulazioni di Brian De Palma e il nuovo thriller o horror inaugurato da Polanski.

Con Daisy Miller di Bogdanovich si entra in zona culturale e nei film tratti da opere letterarie. Naturalmente si parla anche di Barry Brown e della sua recitazione nel film. Brown morì suicida quattro anni dopo a soli 27 anni. Tarantino inserisce nel libro anche un articolo che l’attore scrisse alla morte di Bela Lugosi.

Poi Taxi Driver, film che De Palma ha rifiutato, prima adducendo che non avrebbe incassato un dollaro e in seguito che l’avrebbe girato meglio Scorsese. C’è anche un paragrafo che immagina come sarebbe andata se l’avesse diretto De Palma. Poi una riflessione di Quentin: “Quello che sto vedendo è un film su un razzista o un film razzista? Evidentemente la risposta giusta è la prima.

Le pagine scorrono e sugli spazi bianchi appaiono una miriade di reali storie di cinema viste attraverso i gusti mai nascosti dal regista/autore, che non ha mai negato la sua passione per Sergio Leone.

A differenza di molti suoi colleghi, Tarantino ama andare al cinema, anche rivedere più volte un film che ama, la sua memoria cinematografica è coadiuvata dagli appunti che da sempre prende ogni volta che assiste a una proiezione, proprio come i numerosi critici che ha incontrato durante la sua professione e di cui racconta in questo libro descrivendone i pregi e le virtù.

Insomma, che dire? Nonostante la sua mole, lo si legge pagina dopo pagina con la stessa curiosità e il piacere in cui si assiste a una proiezione tanto attesa quanto gratificante.

20 SIGARETTE Un film di Aureliano Amadei (2010)

Regia di guerra

di Marcello Moriondo

«Consegnai a Pierferdinando Casini il certificato di convivenza more
uxorio, mi chiese i miei dati, il numero di telefono. Fece annotare tutto da
un suo stretto collaboratore e assicurò che mi avrebbe contattato. Sparito,
non l’ho mai più sentito
».
A parlare è Adele Parrillo, compagna di Stefano Rolla, regista morto a
Nassiriya. Lei che ha subito l’umiliazione di non potersi sedere accanto
agli altri famigliari delle vittime durante le celebrazioni ufficiali. Già, perché
lei non era sposata con Stefano, e questo Stato bacchettone le negava il
diritto. “Non é nell’elenco degli invitati”, le ha detto una poliziotta
respingendola. Così come non le è spettata la Croce d’Onore e i
risarcimenti previsti dalla legge. A memoria del suo Stefano, Adele ha
scritto un libro: Nemmeno il dolore.
A Nassiriya, quel maledetto giorno, c’era anche il filmaker Aureliano
Amadei. Rolla gli aveva chiesto di fargli da assistente per un film da girare
in Iraq. Naturalmente Aureliano aveva subito accettato. Pensava a un
viaggio, una vacanza di lavoro. Un approfondimento del mestiere. Gli
eventi successivi hanno distrutto anche il più flebile sogno. Il 12 novembre
2003 sarà coinvolto nel celeberrimo attentato. Rolla morirà con i militari,
Amadei sarà ferito abbastanza seriamente, ma ce la farà.
Sette anni dopo esce questo film in cui racconta la sua esperienza. Ci ha
messo tutto. La speranza, i dubbi sulla reale necessità di una missione “di
pace”, la divergenza d’opinioni tra lui e i militari, il terrore, l’ospedale e,
finalmente, il ritorno.
Ci trascina nella sua storia, Aureliano, ci coinvolge. Anche perché
sappiamo che non è un fantasy. Quello che racconta è successo davvero.
E si è ripetuto sotto altre forme, in altri luoghi, con le stesse modalità, per
le stesse motivazioni. E si ripeterà sempre. Almeno fino a che non si
deciderà di tralasciare missioni che con la pace nulla hanno a che vedere.
Come cantavamo alla fine dei Sessanta, la pace si fa con i fiori, non con
le armi.

Cast:

Vinicio Marchioni, Carolina
Crescentini, Giorgio Colangeli, Orsetta
De Rossi, Alberto Basaluzzo, Edoardo
Pesce,Luciano Virgilio, Gisella
Burinato, Duccio Camerini, Giovanni
Carroni, Vanni Fois, Massimo
Popolizio, Nicola Nocella, Rocco
Capraro, Silvio Laviano


Durata 94 min. – Italia 2010


Mostra di Venezia: Miglior Film
Controcampo Italiano e Menzione
Speciale a Vinicio Marchioni

Jean-Louis Trintignant

L’attore gentile

di Marcello Moriondo

Je voudrais pas mourir
Sans qu’on ait inventé
Les roses éternelles
La journée de deux heures
La mer à la montagne
La montagne à la mer
La fin de la douleur” (Boris Vian)

Quando nel 1958 uscì in Italia Piace a troppi, titolo snaturato del francese Et Dieu… créa la femme di Roger Vadim, ero troppo piccolo per poter assistere a una proiezione vietata ai minori di 16 anni. Riuscii a vederlo solo un anno dopo. Il film usci in Italia con due anni di ritardo e 10 minuti in meno, sforbiciati dalla censura. Certo, il titolo francese era pesante per la piccola e mediocre società borghese democristiana allora al potere, figuriamoci i nudi della quasi esordiente Brigitte Bardot. Film difeso a spada tratta da François Truffaut, ha come interprete maschile, un timido e romantico Jean-Louis Trintignant, nato in Provenza, appena sopra Avignone, al suo quarto film, reduce dai palcoscenici shakespeariani di Macbet e Amleto. La Bardot era sposata con Vadim e Jean-Louis con l’attrice Stéphane Audran. Sul set scattò la scintilla tra i due attori e la loro breve relazione si concluse con un nuovo matrimonio per lui, con l’attrice e regista Nadine Marquand (poi Trintignant), figlia e sorella di attori, come la cognata Tina Amount. Brigitte si consolerà con Gilbert Bécaud, uno dei diversi cantanti-amanti della sua vita. Vadim, rivorrà comunque Trintignant tre anni dopo nella sua versione delle Relazioni pericolose di Choderlos de Laclos, a fianco di Jeanne Moreau, Gérard Philipe e Boris Vian.

Da quel momento vennero confermate le sue qualità recitative, che lo fecero diventare un’icona del film d’autore.

Nel 1959 era al fianco di Eleonora Rossi drago in L’estate violenta di Valerio Zurlini. L’anno seguente recitava in La battaglia di Austerlitz di Abel Gance, che vantava un cast internazionale, da Orson Welles a De Sica e Claudia Cardinale. Continuò la sua carriera interpretando tre o quattro film all’anno, diretto da registi del calibro di Doniol-Valcroze, Franju, Ulmer, Hossein.

Nel 1962 Jacques Demy lo volle nell’episodio La lussuria nel film collettivo I sette peccati capitali, a fianco di Laurent Terzieff. Lo stesso anno è con Vittorio Gassman interprete di Il sorpasso, di Dino Risi. Il film avrà un successo inaspettato e diventerà un cult e Trintignant, timida vittima dell’esuberante fanfarone (non a caso in Francia uscirà col titolo Fanfaron) è ormai famoso anche in Italia. Due anni dopo è l’incauto ufficiale francese nelle braccia della spia Mata-Hari (Jeanne Moreau), quindi, a fianco di Romy Schneider, è diretto da Henri-Georges Clouzot in L’enfer, un film rimasto incompiuto a causa di un infarto del regista.

È Claude Lelouch, nel 1966, a fare di Trintignant una star internazionale con un capolavoro quale Un uomo, una donna (due Oscar, due Golden Globe, un Nastro d’argento e Palma d’Oro a Cannes), a fianco di Anouk Aimée, girato sulla spiaggia di Deauville. Questa storia di amore disperato avrà un sequel in occasione del suo ventesimo compleanno: Un uomo, una donna oggi, quindi nel 2019 il terzo capitolo: I migliori anni della nostra vita, stessi personaggi, stessi interpreti, stesso regista.

Il ’66 è un anno prolifico per l’attore che girerà anche Parigi Brucia? di René Clemént e Trans-Europ-Express di Alain Robbe-Grillet. Col regista-scrittore girerà anche L’uomo che mente (1968, Miglio Attore a Berlino), Spostamenti progressivi del piacere (1974) e Giochi di fuoco (1975).

Nel 1967 è la volta di Tinto Brass con un giallo tratto dal romanzo di Sergio Donati “Il sepolcro di carta”: Col cuore in gola, cui segue La morte ha fatto l’uovo di Giulio Questi, a fianco di Gina Lottobrigida. Jean-Louis si alternerà poi tra cinema francese e italiano con registi autorevoli: Chabrol con Le cerbiatte, la moglie Nadine, Sergio Corbucci, Festa Campanile.

Il cinema civile lo aggancia nel 1969, quando Costa-Gavras mette in scena l’avvento della dittatura in Grecia avvenuta due anni prima con il golpe dei colonnelli. È Z – L’orgia del potere, tratto dal romanzo di Vassillikos. L’interprete principale è Yves Montand, Trintrignant è l’utopico giudice che rinvia a giudizio la giunta militare, le musiche sono di Theodorakis, due Oscar, Migliore attore a Cannes per Trintignant.

Quindi Metti una sera a cena di Patroni Griffi, La mia notte con Maud di Éric Rohmer, Umberto Lenzi.

Nel 1970 Bertolucci lo vuole nella parte di Marcello nella trasposizione cinematografica di Il conformista di Alberto Moravia, con Dominique Sanda e Stefania Sandrelli. Poi tornerà a girare con Clément in La corsa della lepre attraverso i campi.

Ritroverà Romy Schneider nel 1973, sua partner in Noi due senza domani di Pierre Granier-Deferre, tratto da Simenon. Altro film indimenticabile è La donna della domenica, che Luigi Comencini ha tratto da Fruttero e Lucentini, che lo vede a fianco di Mastroianni e Jacqueline Bisset.

Nel 1983 è l’indiziato salvato dall’intraprendente Fanny Ardant in Finalmente domenica! di François Truffaut, tratto dal noir di Charles Williams, un incredibile bianco e nero d’autore. Nel 1994 Krzysztof Kieslowski lo vorrà nei panni dell’intercettatore in Film rosso, che tirerà le fila della trilogia Tre colori.

Ci vorrebbero dieci pagine per elencare le numerose interpretazioni di Trintignant. A me piace ricordare Il deserto dei tartari di Valerio Zurlini, tratto da Buzzati; La terrazza e Il mondo nuovo di Ettore Scola; Acque profonde di Michel Deville; Colpire al cuore di Gianni Amelio, quando il cinema fa i conti con la storia; Sotto tiro di Roger Spottiswoode, dove interpreta una spia negli ultimi giorni della dittatura in Nicaragua; Viva la vita e Tornare per rivivere di Lelouch; Rendez-vous di André Techiné; Mercie la vie di Bertrand Blier; Bunker Palace Hotel e Tykho Moon, tratti dai fumetti fantascentifici del regista e fumettista Enki Bilal.

Sarà Michael Haneke a cullarlo verso gli ultimi fuochi della sua strabiliante carriera con Amour nel 1912 e Happy End nel 2017. Trintignant non voleva interpretare quest’ultimo film, per un valido motivo. A Cannes, in occasione della consegna della Palma d’Oro quale miglior attore, annunciò di essere malato di cancro e di non volersi curare: “Non combatto, lascio che accada.” Ma poi due anni dopo anche Lelouch lo convinse a lavorare per l’ultimo capitolo di Un uomo, una donna, in cui il suo personaggio sta perdendo completamente la memoria.

Noi non lo dimenticheremo di certo e non finiremo mai di ringraziarlo per tutte le emozioni che ci ha scatenato durante la sua carriera.

Uomo incredibile: Attore, regista, corridore automobilistico (uno sport di famiglia), produttore di vini. Amava la poesia, in cui si era rifugiato dopo le tragedie familiari causate dalla Seconda Guerra Mondiale. Nel 2003 portò sulle scene, con la figlia Marie, “Poèmes à Lou” di Guillaume Apollinaire. Non poteva immaginare che Marie sarebbe morta tragicamente di lì a poco, per mano del cantante dei Noir Désir. Quando negli ultimi anni gli chiesero se aveva paura della morte, rispose di essere morto il giorno stesso in cui morì sua figlia.

La poesia che ci ha lasciato per testamento è di Boris Vian: Je voudrais pas crever, che l’attore ha letto con la consueta intensità.