Gomorra (2008)

di Marcello Moriondo

Gomorra di Matteo Garrone sbatte giustamente in piazza i panni sporchi per troppo tempo nascosti tra le mura di uno Stato compiacente quando non complice. Nino D’Angelo e gli Enigma fanno da contorno sonoro alle “vele” di Scampia, simbolo del degrado partenopeo, mentre le stesse “vele” a Villeneuve, sulla Costa Azzurra, incontrate sulla strada per Cannes, sono il simbolo della modernità. Il film è stato da subito ai primi posti nelle classifiche nostrane, seguendo l’esempio del libro del super-scortato Roberto Saviano. Per tastare il reale sentire del pubblico (anche se probabilmente un po’ cinefilo), ho assistito a una proiezione di Gomorra fuori dell’ambito festivaliero, in una sala fuori Cannes. Prima della proiezione i commenti captati dal pubblico francese erano del tipo: “Napoli come Palermo… i due nomi che titolano l’aeroporto di Palermo sono i cognomi di due boss mafiosi morti ammazzati (Falcone e Borsellino, per capirci) … l’Italia e’ la pattumiera d’Europa…”. Questo per rendere il clima. Quando i titoli di testa, dopo quello della 01, hanno mostrato il logo Rai, e’ partito un timido applauso (forse di un estimatore d’oltralpe del servizio pubblico italiano), subito smorzato da sberleffi e qualche booh di disapprovazione. Per il resto della proiezione non si è sentita volare una mosca, a parte sospiri ansiosi durante le scene cruente, caratterizzate dai sottotitoli, in questo caso solo francesi. Al termine unanime applauso di una decina di secondi e qualche fischio. Gli spettatori si sono schiodati solo al termine dei titoli di coda che, al contrario delle sale italiane, passano a luci spente. I commenti finali avvaloravano quelli iniziali, aggiungendo qualche “l’Europa dovrebbe intervenire… l’Italia ormai ha toccato il fondo…” e via di questo passo.

Nei fatti, poi, il film Gomorra, dopo l’incredibile e meritato successo del libro di Saviano, ha aggiunto al suo curriculum il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes 2008 e la candidatura alla selezione per l’Oscar.

Draquila – L’Italia che trema (2010)

di Marcello Moriondo

Sabina Guzzanti descrive minuziosamente i fatti pre e post terremoto a L’Aquila, con interviste, dichiarazioni e documenti ufficiali. Quello che disturba di più è vedere come, nella massima indifferenza, il governo Berlusconi abbia variato le norme sull’emergenza, equiparando pubblico e privato nella distribuzione dei soldi dello Stato; come i cittadini dell’Aquila siano sotto ‘regime speciale’, che va ben oltre i dettami costituzionali; come i soldi dei cittadini (soprattutto in un momento di crisi) siano stati regalati a faccendieri, costruttori e chiamiamole escort. Sporca propaganda sulla pelle dei morti, con un cinismo aberrante, sopra l’imbarazzante silenzio dell’opposizione. Voi direte, va be’, lo si sapeva già. Ok, perché li votano allora? Sul finale del film qualcuno dice: “non è la classica dittatura, con l’esercito (anche se all’Aquila non decidono i cittadini ma i militari) e i carri armati, è la dittatura della merda.”

Prossimamente nel corso del tempo

di Marcello Moriondo

Il cinema si diverte a giocare col tempo, a portarci nel passato, a entrare nel presente, ma anche a spingersi oltre, verso il futuro, quel futuro ignoto che si sforza di immaginare. Le uscite cinematografiche annunciate per la prossima stagione ne sono l’esempio lampante, si descrivono i tempi andati, quelli attuali e quelli di un ipotetico domani.

Ieri

Ridley Scott traccia un ritratto di Napoleon, dai fasti al rovinoso crollo: Joaquin Phoenix ci mette la faccia, Martin Phipps le musiche.

Scorsese è passato da Cannes col suo Killers of the Flower Moon, in cui racconta di crimini ambientati nei primi Anni ’20; dal romanzo di David Graan, con le musiche di Robbie Robertson e i cantanti country Jason Isbell e Sturgill Simpson nel cast.

Nel 1928 Wirginia Woolf ha scritto un capolavoro, ripreso poi da Paul B. Preciado in Orlando, my Political Biography.

Samuel Beckett visto dal regista James Marsh: il grande drammaturgo, il Premio Nobel, il partigiano, il suo incontro con James Joyce, nel film Dance First, Think Later.

Agatha Christie, grazie al suo Poirot e la strage degli innocenti, ispira ancora una volta Kenneth Branagh in Assassinio a Venezia, ambientato nel secondo dopoguerra.

Saverio Costanzo, in Finalmente l’alba, crea una fiaba tinta di giallo ambientata nel 1953 a Cinecittà, a ridosso del famigerato “Caso Montesi”.

Wes Anderson ci porta nel deserto del Nevada nel 1955, dove una varia umanità è confluita dopo la caduta di un asteroide gigante. È Asteroid City; Johnny Duncan interpreta Last train to San Fernando, Tex Ritter High Noon, Slim Whitman Indian Love Call, Tennesseee Ernie Ford Sixteen Tons, Poi c’è Il Canone di Pachelbel, un sacco di country e non solo.

Nel 1957, per superare la crisi economica e le tragedie familiari, l’ex pilota Ferrari si inventa la Mille Miglia in Ferrari di Michael Mann

La chimera di Alice Rohrwacher ci catapulta negli Anni ’80, tra archeologi e tombaroli, accompagnati da Vado al massimo di Vasco Rossi, Il tango delle capinere e Gli uccelli di Franco Battiato.

Madame Chirac voleva essere presidente, come il marito, non lo sarà ma diventerà un’importante figura mediatica in Bernadette – Le première dame, di Léa Doménach.

Roberta Torre omaggia Monica vitti raccontando, in Mi fanno male i capelli, di una donna che, perdendo la memoria, si identifica nei film della grande attrice.

Il 31 dicembre 1999, in un castello sulle Alpi Svizzere si festeggia il nuovo millennio e succede di tutto: la regia è di Roman Polanski e il film è The Palace.

Isabelle Huppert è la sindacalista Maureen Kearney nel thriller, basato su fatti reali del 2012, Maureen K. Di Jean-Paul Salomé.

Sei donne legate a Greenpeace stupirono tutto il mondo, scalando per protesta il grattacielo più alto d’Europa, lo Shard di Londra; era il 2013, il film The Climb, la regista Hayley Easton-Street.

Oggi

Il cinquantesimo lungometraggio di Woody Allen, Coup de Chance, a detta del regista dovrebbe essere il suo ultimo film, “un thriller romantico velenoso”.

Diabolik – Chi sei? è il terzo film dei Manetti bros. dedicato all’eroe senza tempo creato alle sorelle Giussani.

Paolo Virzì invece torna a Ventotene con Un altro ferragosto e gli stessi villeggianti del suo Ferie d’Agosto del 1996.

L’attrice Kasia Smutniak debutta alla regia raccontando dei muri vergognosi che proliferano nel suo Paese d’origine, la Polonia, in Mur.

Michel Gondry crea una storia quasi autobiografica in Il libro delle soluzioni; Sting interpreta sé stesso e ascoltiamo Gnossienne n. 1 di Erik Satie.

L’amour et les forêts di Valérie Donzelli è un dramma romantico che vira sul thriller, tratto dal libro di Éric Reinhardt; Johnny Nash interpreta Hold me tight, Barbara Du bout des lèvres, Paolo Conte Sirat Al Bunduqiyyah.

Due ragazze si mettono in viaggio per raggiungere Tallahassee, in Florida: è la prima regia di Ethan Coen senza il fratello Joel, Drive-Away Dolls.

Luca Guadagnino entra nei campi da tennis con Challenger: tre amici in competizione, non solo sportiva.

Domani

Il saggio del fisico Carlo Rovelli ha ispirato Liliana Cavani per L’ordine del tempo, cioè una notte verso la fine del mondo.

Cavalieri alieni sotto copertura scelgono il nord della Francia come teatro delle loro battaglie in L’Empire di Bruno Dumont.

The Marvels, ovvero tre super eroine di nuovo in azione dirette da Nia DaCosta; The Beastie Boys interpretano Intergalactic.

In un ipotetico futuro Léa Seydoux, torna alle sue precedenti vite in La Bête, di Bertrand Bonello.

Il canadese Denis Villeneuve annuncia una resa dei conti con il sequel Dune – Parte due.

Peter von Kant e Mon crime

Un regista, due film

di Marcello Moriondo

Appaiono quasi in contemporanea nelle sale due film di François Ozon: Mon crime – La colpevole sono io e Peter von Kant, del 2022, in concorso al Festival di Berlino.

Peter von Kant.

È un evidente omaggio a Rainer Werner Fassbinder, in cui Ozon inverte i ruoli riproponendo Le lacrime amare di Petra Von Kant in versione maschile, sapendo che il regista tedesco aveva messo in scena una storia quasi autobiografica trasformandola a sua volta al femminile. Quindi Ozon riporta tutto alle origini, scegliendo come attore protagonista Denis Menochet, che già aveva lavorato con lui in Nella casa e Grazie a Dio, plasmandolo sulla figura di Fassbinder.

Peter è un regista famoso, che vive col suo assistente Karl (Stefan Crépon). Quest’ultimo, più che un collaboratore è lo schiavetto personale di Peter, che non perde occasione per maltrattarlo anche in presenza di altri con vessazioni umilianti. Grazie a Sidonie (Isabelle Adjani), diventata una grande attrice grazie al contributo di Peter, il regista incontra Amir, giovane attore talentuoso, di cui si innamora perdutamente.

Mon crime.

Anni ’30, Parigi. L’attricetta poco talentuosa Madeleine Verdier (Nadia Tereszkiewicz) viene accusata ingiustamente dell’omicidio di un produttore. Messa alle strette da un inetto giudice istruttore (Fabrice Luchini) e dietro consiglio della sua amica e legale Pauline (Rebecca Marder), per evitare una pena maggiore si dichiara colpevole per legittima difesa. Peccato che da dietro l’angolo spunti una matura stella del cinema muto, Odette (Isabelle Huppert), che rivendica la paternità del crimine, considerando che la causa giudiziaria ha reso celebre e ricca Madaleine. Inizia un gioco di ruolo degno dei migliori vaudeville, dove tutti gli attori in campo, accusate, inquisitori, fiancheggiatori, cercano di uscirne senza danni. Forse solo il teatro può risolvere la situazione.

Il teatro.

Il teatro è da sempre fonte d’ispirazione per Ozon. Mon crime è tratto dallapiece di Georges Berr e Louis Verneuil; Gocce d’acqua su pietre roventi da Fassbinder; 8 donne e un mistero (2002)dalla piece di Robert Thomas; Potiche (2010) da Pierre Barillet e Jean-Pierre Grédy; Nella casa (2012) da Juan Mayorga; Frantz (2016) da Maurice Rostand. Peter Von Kant è un dramma che si consuma nella stessa stanza, come un’opera teatrale, appunto. Mon crime – La colpevole sono io apre con un sipario teatrale che si alza mostrando una piscina davanti a una casa, mentre la musica di Philippe Rombi suggerisce che in quel luogo qualcosa di grave deve essere accaduto. Vediamo l’attrice incriminata diverse volte sul palcoscenico, a teatro ma non solo.Persino l’aula di tribunale pare trasformarsi in teatro, dove le arringhe dell’accusa e la difesa dell’imputata diventano monologhi appassionati, tra i fischi del pubblico per l’accusa e gli scroscianti applausi per l’imputata.

Fassbinder.

Naturalmente il primo riferimento va a Peter von Kant, di cui conosciamo già l’origine.Il manifesto del film (non quello italiano) fa il verso a Querelle (1982) e anche la messa in scena ricorda i tratti del regista scomparso. Ozon ha asciugato un po’ delle lacrime amare, lasciando il posto all’ironia e alla leggerezza nella caratterizzazione dei personaggi, soprattutto in Karl. Hanna Schygulla che interpretava il ruolo di Karin nel dramma di Fassbinder, cioè il corrispondente al femminile di Amir, qui diventa la madre di Peter e Adjani canta Jeder Tötet Was Er Liebt, la versione tedesca di Each man kills the thing he love, che Jeanne Moreau cantava in Querelle. Canzone che a sua volta riprende il testo poetico di Oscar Wilde The Ballad of Reading Gaol. In Mon crime ci sono personaggi, soprattutto quelli femminili, che sarebbero piaciuti moltissimo a Fassbinder, e non manca un’altra citazione: alcuni frammenti di Les larmes amères de Marie-Antoinette, film muto interpretato da Odette. Anche nel già citato Gocce d’acqua su pietre roventi il dramma viene smussato e alleggerito grazie alla recitazione disinvolta e alle canzoni che i protagonisti interpretano nel loro balletto.Il titolo del corto La paura mangia l’anima (2007), è evidentemente rubato al film di Fassbinder del 1974.

Le musiche.

In Mon crime, oltre che delle musiche del fedele Philippe Ronbi, la colonna sonora si avvale di Le bonheur c’est un rien cantata da Danielle Darrieux dal film Mademoiselle Mozart (1935) di Yvan Noée Sans un mot, interpretata sempre dalla stessa attrice dal film La crise est finie (1934) di Robert Siodmak.

In Peter von Kant ci sono le musiche di Clément Ducol e naturalmente il pezzo interpretato da Isabelle Adjani, Jeder Tötet Was Er Liebt.

Cinema Speculation

Il cinema al cinema

di Marcello Moriondo

Leggendo le varie biografie di registi più o meno impegnati o di tendenza (qualcuno potrebbe classificarli “cult”), mi accorgo di aver iniziato il mio percorso di visione cinematografica qualche decennio prima di loro. Escludendo ovviamente personaggi tipo Hitchcock o Truffaut. Mia madre mi portava al cinema quando ero ancora in fasce. Diceva che me ne stavo tranquillo e zitto, con metà del corpo avvolto da bende tipo mummia. Naturalmente in seguito non ho smesso di frequentare le sale cinematografiche, anzi, ho reso più assiduo il mio contatto con il cinema.

Quentin Tarantino non è dissimile dagli altri suoi colleghi registi. Se Spielberg racconta nel suo The Fabelmans di essere stato a vedere Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille nel 1952, all’età di sei anni, Tarantino nel suo libro Cinema Speculation edito da La nave di Teseo e tradotto da un esperto di cinema quale Alberto Pezzotta, racconta di essere stato al Tiffany in Sunset Boulevard per la doppia proiezione di La guerra del cittadino Joe di John G. Avildsen e Senza un filo di classe di Carl Reiner, nel 1970, a sette anni, accompagnato dalla madre, unico bambino in una sala gremita di spettatori adulti.

Dalle pagine del suo libro si evince la passione per il mondo della celluloide. Tarantino racconta la strada che ha calpestato per arrivare alla regia; le interminabili ore passate al cinema, i primi anni in compagnia di un adulto, quindi ancora accompagnato, ma solo fino all’ingresso della sala. I primi viaggi nella fantasia in celluloide, Quentin li ha vissuti apprezzando soprattutto film d’azione, spesso insieme a un compagno di colore della madre, in cinema frequentati da neri. Proiettavano i cosiddetti blaxploitation, un termine che giocava con le parole black e exloitation: erano film realizzati a poco costo con interpreti neri, destinati a spettatori neri. Questa la premessa al volume di 420 pagine spassose, credo non solo per i cultori del cinema.

Ogni capitolo è un pretesto per raccontare un’epoca, quella hollywoodiana, attraverso i suoi personaggi e alle sue opere, nel bene e nel male, naturalmente sotto la lente soggettiva di Tarantino.

Quindi entra nel vivo con Bullit e il mito di Steve McQueen, confrontato con altre star del periodo, ma anche con spunti di gossip, con gli intrecci sentimentali al di fuori del set, che proseguono nei capitoli successivi con l’incontro con Ali MacGraw.

Si passa poi a Clint Eastwood e l’ispettore Callaghan, un pretesto per un’analisi sulla violenza poliziesca nei film, più volte tacciata di razzismo, quando non di fascismo.

Si prosegue cronologicamente con la New Hollywood degli anni Settanta: i registi contro il potere, Dennis Hopper, Altman, Bob Rafelson, Peckinpah, Friedkin, Cassavetes; i giovani innovatori, l’arrivo di Spielberg, Lucas, Coppola; gli hitchcockiani con le emulazioni di Brian De Palma e il nuovo thriller o horror inaugurato da Polanski.

Con Daisy Miller di Bogdanovich si entra in zona culturale e nei film tratti da opere letterarie. Naturalmente si parla anche di Barry Brown e della sua recitazione nel film. Brown morì suicida quattro anni dopo a soli 27 anni. Tarantino inserisce nel libro anche un articolo che l’attore scrisse alla morte di Bela Lugosi.

Poi Taxi Driver, film che De Palma ha rifiutato, prima adducendo che non avrebbe incassato un dollaro e in seguito che l’avrebbe girato meglio Scorsese. C’è anche un paragrafo che immagina come sarebbe andata se l’avesse diretto De Palma. Poi una riflessione di Quentin: “Quello che sto vedendo è un film su un razzista o un film razzista? Evidentemente la risposta giusta è la prima.

Le pagine scorrono e sugli spazi bianchi appaiono una miriade di reali storie di cinema viste attraverso i gusti mai nascosti dal regista/autore, che non ha mai negato la sua passione per Sergio Leone.

A differenza di molti suoi colleghi, Tarantino ama andare al cinema, anche rivedere più volte un film che ama, la sua memoria cinematografica è coadiuvata dagli appunti che da sempre prende ogni volta che assiste a una proiezione, proprio come i numerosi critici che ha incontrato durante la sua professione e di cui racconta in questo libro descrivendone i pregi e le virtù.

Insomma, che dire? Nonostante la sua mole, lo si legge pagina dopo pagina con la stessa curiosità e il piacere in cui si assiste a una proiezione tanto attesa quanto gratificante.

Massimo Troisi, 1989

Due chiacchiere con Massimo Troisi

di Marcello Moriondo

Se comprano i miei film, bene. Altrimenti riprenderò a farli per la mia città, per il mio quartiere.” Così Massimo Troisi risponde a chi trova difficile per i suoi film un ingresso nel mercato straniero. Ma è strano pensare a film per il quartiere negli ambienti festivalieri. A Cannes, per esempio, in mezzo al casino pazzesco che gravita attorno al Festival, tra le centinaia di fan con macchine fotografiche di ogni genere, che cercano di avere degli incontri ravvicinati di qualche tipo con le star, in abito da sera e pailette, durante la rituale passerella.

Nell’hotel Martinez, orgoglio residenziale della Croisette con il Carlton e il Majestic, la Cecchi Gori tiene il suo quartier generale, qui alloggia Troisi e qui l’incontro dopo la visione del film Splendor di Ettore Scola.

Massimo, si fa veramente la fila per poterti parlare…

EH, sì… chissà se dopo se ne pentiranno. Dopo aver visto il film, intendo.

Forse l’hanno già visto. È stato accolto molto bene, ne sei stupito?

Stupito no, non me ne sono nemmeno reso conto… a Cannes c’è molta confusione… sai, uno non è che si fa piglià la mano dai fotografi, quelli arrivano e ti vogliono fotografare, anche se magari non sanno chi sei.

Come sei arrivato a lavorare per Ettore Scola?

Lo conoscevo già e lo apprezzavo per i suoi film. Lui era venuto a vedermi in teatro, ma diverso tempo fa, quando stava lavorando alla Terrazza, e diciamo che ci siamo un po’ corteggiati mantenendo però le distanze e senza osare fare, né io né lui, il primo passo. Poi invece ci siamo dichiarati stima reciproca e appena si è presentata la possibilità con Splendor, abbiamo deciso di lavorare insieme. Così ci siamo accorti che c’era qualcosa che andava al di là della scelta di un attore o di un regista.

Sul set di Scola hai avuto una buona intesa?

Sì. È più strano ed eccezionale quando si raccontano i litigi sul set che quando ci stai bene. Però io aggio fatto fino a mo’ otto o nove film e m’è capitato sempre di sta’ bbene, O so’ io un santo, oppure è veramente facile andare d’accordo. Io, fortunatamente fino a mo’… anche perché me li scelgo bene, sinceramente. Con Scola va tutto bene, altrimente sarei proprio masochista a fare film con lui facendo finta di trovarmi bene.

Questo tuo modo di recitare che sembra sempre un’improvvisazione anche se Scola nega che tu improvvisi sul set, da doveti arriva?

Ma… questo modo di recitare mi è naturale, dato che non ho frequentato scuole di recitazione né ho fatto altri studi… insomma, sono come mi vedi. Non ho riferimenti precisi nel cinema, per me i classici sono Totò, De Sica, Pasolini… Film con messaggi immediati, senza le contorsioni ermetiche di certi film russi o giapponesi.

In Splendor il tuo personaggio è un appassionato di cinema, tu non lo sei?

Sinceramente non sono un cinefilo appassionato, al cinema ci vado pure abbastanza poco. Anche perché tengo paura della gente. Mo’ che c’è la crisi, ci vado di più. Ci sta meno gente e ci si sta anche meglio. Quindi ‘a crisi ha acquistato uno spettatore… però mi piace, mi piacerebbe molto andarci più spesso e so tutto, sono molto informato.

Quindi le citazioni che fai in Spendor…

… potrebbero anche essere mie, sì, sì, quelle sì.

I tuoi programmi futuri?

Be’ c’è questo altro film di Scola, Che ora è. Io a ogni cosa che dice lui, a ogni desiderio che esprime, io dico sì. Mo’ mi fa fa’ pure il battesimo del nipote, gli ho detto sì.

E come regista, cos’hai intenzione di fare, di riprendere?

Ho scritto per tutto il periodo durante la lavorazione di Splendor e spero di cominciare presto a girare.

Per il teatro hai intenzione di produrre qualcosa o hai scelto definitivamente il cinema?

Per ora no, non credo. Non ho intenzione di sposarmi, non ho intenzione di avere un figlio, non ho intenzione di andare in India… Però domani mi puoi trovà in India, dici: come, mi avevi detto che non ci andavi…

Allora preferisci fare il padrino per i figli degli altri, invece tuoi…

Per adesso… adesso no. Però può essere che mi trovi in India con mio figlio e con mia moglie.

Pensi che si perda qualcosa, di te, della tua caratteristica, nell’eventuale doppiaggio dei tuoi film?

Si perde sicuramente, son convinto… ma poi sai, non si tratta nemmeno del doppiaggio: si tratta di cosa vai a proporre e come… allora se si riesce, qui in Francia come in qualunque altro paese, a proporre il mio personaggio, il mio modo di fare, il mio modo di dire, in maniera gradevole e accattivante, bene. Se no, non servono neanche i sottotitoli. Se poi non capiscono perché sono troppo dialettale van benissimo. Così anche gli italiani che non capiscono prendono e vanno all’estero apposta per vedere i miei film sottotitolati e dire: “Oh, finalmente c’ho capito qualcosa.

E del doppiaggio in generale, che ne pensi?

A me sta bene pure in Italia, finché si doppia un attore che viene da Tokio. Quando la stessa cosa succede con attori italiani non sono d’accordo. Perché si toglie verità, i film non sono più in presa diretta. Il fatto che si lavori solo sulle facce e non sugli attori completi, è limitante. All’estero, queste sono delle abitudini ormai radicate, ma in Italia la gente va a vedere un film solo se è doppiato. Alcuni attori stranieri trovano pure il doppiatore giusto, quindi non c’è problema in questo senso, per loro. Spero di trovarlo pur’io.

Rifaresti film tipo Ricomincio da tre?

Magari mi venissero, come… no?

Ottenne un grande successo…

Appunto, proprio per quello! Quello è stato il mio trampolino di lancio.

E la tua collaborazione con Benigni, anche lui a Cannes, prosegue?

Ci siamo visti e abbiamo in mente un progetto cinematografico ancora da definire. Vorrei prima riuscire a realizzare un film mio, anche per dare un po’ di filo da torcere ai critici italiani che vorrebbero che io scomparissi dalla scena…

Pensi di dare un dispiacere ai critici continuando a lavorare?

Facendo il film mio? Sì, sì. Ne sono sicuro.

Che musica ascolti?

Mi piacciono i cantautori italiani: Pino Daniele, De Gregori, Paolo Conte, sono quelli che ascolto di più.

E Bennato…

… Bennato… sì. Voglio dire, anche Dalla, Venditti, ma sono i primi tre nomi forse i miei preferiti.

Pensi che Splendor avrà un buon successo?

Magari… se solo sarà accolto in tutta Italia come lo è stato qui a Cannes.