Artemisia (1997)

Un’artista coraggiosa

di Marcello Moriondo

Il fascino di Artemisia Gentileschi ha raggiunto Agnes Merlet quando la regista francese frequentava le Beaux-Arts d’Orleans, e si è trovata di fronte a una riproduzione di Giuditta e Oloferne. “La violenza del quadro di Artemisia (custodito a Firenze, palazzo degli Uffizi) mi ha affascinato” dice la Merlet “e alle Beaux-Arts ho fatto un film di 30 minuti su di lei“. Ora Artemisia è un lungometraggio interpretato da Valentina Cervi, che qualche affinità con la pittrice ce l’ha, come spiega la regista: “Solo dopo aver scelto Valentina mi sono resa conto della sorprendente somiglianza con un autoritratto di Artemisia“.

Nel 1610 la sedicenne Artemisia Gentileschi rincorre le orme del già celebre padre Orazio (Michel Serrault), nell’arte della pittura. La Roma del XVII secolo vive un’epoca e una società che proibisce alle donne di dipingere, di entrare in accademia, nonché l’utilizzo di uomini nudi come modelli. Ma Artemisia ha l’arte nel sangue e una determinazione che la porta a divenire la prima pittrice donna della storia moderna. Rifiutata all’accademia, diventa l’allieva di Agostino Tassi, un altro innovatore: è stato il primo a portare il cavalletto all’esterno dell’atelier per riprendere “dal vivo” i paesaggi. Oltre alla creazione artistica, Agostino inizia, non scoraggiato, la bella adolescente ai piaceri dell’amore. Quando papà Gentileschi scopre la relazione, denuncia Agostino Tassi per stupro verso la giovane figlia. Altro elemento nuovo: si istituisce quello che si può definire il primo processo per stupro della storia. Agnès Merlet, pur avendo consultato gli atti conservati nella biblioteca vaticana, non ha voluto calcare la mano su questo processo, al quale Artemisia rifiuterà di testimoniare, dedicandogli solo lo spazio finale.

Se rivediamo le immagini dei processi per stupro in Italia degli Anni ’70, ma anche più recenti, ci rendiamo conto di quanto poco sia cambiato nella mentalità misogina di certi apparati giudiziari, soprattutto nei difensori dei colpevoli di violenza sulla donna. Comportamenti che tendono a ribaltare la realtà, presentando il carnefice come vittima della persona che ha subito violenza.

Tornando a Artemisia: ormai è una donna che ha acquisito due esperienze basilari: l’approfondimento pittorico, fondamentale per il proprio futuro artistico, e la scoperta della sensualità, prima attraverso la visione del corpo nella sua nudità, poi nel contatto fisico e quindi nel piacere della carne. Ha anche la consapevolezza che la solidarietà femminile è indispensabile per ribellarsi al maschilismo patriarcale della sua epoca, e non solo di quella. Lo dimostra nel suo dipinto Giuditta che decapita Oloferne, dove ad aiutare Giuditta c’è un’altra donna. La vicenda l’aveva già rappresentata così Caravaggio circa dieci anni prima, ma nella rappresentazione di Artemisia assume un messaggio molto potente, quasi femminista.

La regista ha voluto trasmettere i sentimenti di questa giovane donna attraverso immagini che sembrano altrettanti meravigliosi quadri, le opere della prima grande artista donna finalmente riconosciuta.

Massimo Troisi, 1989

Due chiacchiere con Massimo Troisi

di Marcello Moriondo

Se comprano i miei film, bene. Altrimenti riprenderò a farli per la mia città, per il mio quartiere.” Così Massimo Troisi risponde a chi trova difficile per i suoi film un ingresso nel mercato straniero. Ma è strano pensare a film per il quartiere negli ambienti festivalieri. A Cannes, per esempio, in mezzo al casino pazzesco che gravita attorno al Festival, tra le centinaia di fan con macchine fotografiche di ogni genere, che cercano di avere degli incontri ravvicinati di qualche tipo con le star, in abito da sera e pailette, durante la rituale passerella.

Nell’hotel Martinez, orgoglio residenziale della Croisette con il Carlton e il Majestic, la Cecchi Gori tiene il suo quartier generale, qui alloggia Troisi e qui l’incontro dopo la visione del film Splendor di Ettore Scola.

Massimo, si fa veramente la fila per poterti parlare…

EH, sì… chissà se dopo se ne pentiranno. Dopo aver visto il film, intendo.

Forse l’hanno già visto. È stato accolto molto bene, ne sei stupito?

Stupito no, non me ne sono nemmeno reso conto… a Cannes c’è molta confusione… sai, uno non è che si fa piglià la mano dai fotografi, quelli arrivano e ti vogliono fotografare, anche se magari non sanno chi sei.

Come sei arrivato a lavorare per Ettore Scola?

Lo conoscevo già e lo apprezzavo per i suoi film. Lui era venuto a vedermi in teatro, ma diverso tempo fa, quando stava lavorando alla Terrazza, e diciamo che ci siamo un po’ corteggiati mantenendo però le distanze e senza osare fare, né io né lui, il primo passo. Poi invece ci siamo dichiarati stima reciproca e appena si è presentata la possibilità con Splendor, abbiamo deciso di lavorare insieme. Così ci siamo accorti che c’era qualcosa che andava al di là della scelta di un attore o di un regista.

Sul set di Scola hai avuto una buona intesa?

Sì. È più strano ed eccezionale quando si raccontano i litigi sul set che quando ci stai bene. Però io aggio fatto fino a mo’ otto o nove film e m’è capitato sempre di sta’ bbene, O so’ io un santo, oppure è veramente facile andare d’accordo. Io, fortunatamente fino a mo’… anche perché me li scelgo bene, sinceramente. Con Scola va tutto bene, altrimente sarei proprio masochista a fare film con lui facendo finta di trovarmi bene.

Questo tuo modo di recitare che sembra sempre un’improvvisazione anche se Scola nega che tu improvvisi sul set, da doveti arriva?

Ma… questo modo di recitare mi è naturale, dato che non ho frequentato scuole di recitazione né ho fatto altri studi… insomma, sono come mi vedi. Non ho riferimenti precisi nel cinema, per me i classici sono Totò, De Sica, Pasolini… Film con messaggi immediati, senza le contorsioni ermetiche di certi film russi o giapponesi.

In Splendor il tuo personaggio è un appassionato di cinema, tu non lo sei?

Sinceramente non sono un cinefilo appassionato, al cinema ci vado pure abbastanza poco. Anche perché tengo paura della gente. Mo’ che c’è la crisi, ci vado di più. Ci sta meno gente e ci si sta anche meglio. Quindi ‘a crisi ha acquistato uno spettatore… però mi piace, mi piacerebbe molto andarci più spesso e so tutto, sono molto informato.

Quindi le citazioni che fai in Spendor…

… potrebbero anche essere mie, sì, sì, quelle sì.

I tuoi programmi futuri?

Be’ c’è questo altro film di Scola, Che ora è. Io a ogni cosa che dice lui, a ogni desiderio che esprime, io dico sì. Mo’ mi fa fa’ pure il battesimo del nipote, gli ho detto sì.

E come regista, cos’hai intenzione di fare, di riprendere?

Ho scritto per tutto il periodo durante la lavorazione di Splendor e spero di cominciare presto a girare.

Per il teatro hai intenzione di produrre qualcosa o hai scelto definitivamente il cinema?

Per ora no, non credo. Non ho intenzione di sposarmi, non ho intenzione di avere un figlio, non ho intenzione di andare in India… Però domani mi puoi trovà in India, dici: come, mi avevi detto che non ci andavi…

Allora preferisci fare il padrino per i figli degli altri, invece tuoi…

Per adesso… adesso no. Però può essere che mi trovi in India con mio figlio e con mia moglie.

Pensi che si perda qualcosa, di te, della tua caratteristica, nell’eventuale doppiaggio dei tuoi film?

Si perde sicuramente, son convinto… ma poi sai, non si tratta nemmeno del doppiaggio: si tratta di cosa vai a proporre e come… allora se si riesce, qui in Francia come in qualunque altro paese, a proporre il mio personaggio, il mio modo di fare, il mio modo di dire, in maniera gradevole e accattivante, bene. Se no, non servono neanche i sottotitoli. Se poi non capiscono perché sono troppo dialettale van benissimo. Così anche gli italiani che non capiscono prendono e vanno all’estero apposta per vedere i miei film sottotitolati e dire: “Oh, finalmente c’ho capito qualcosa.

E del doppiaggio in generale, che ne pensi?

A me sta bene pure in Italia, finché si doppia un attore che viene da Tokio. Quando la stessa cosa succede con attori italiani non sono d’accordo. Perché si toglie verità, i film non sono più in presa diretta. Il fatto che si lavori solo sulle facce e non sugli attori completi, è limitante. All’estero, queste sono delle abitudini ormai radicate, ma in Italia la gente va a vedere un film solo se è doppiato. Alcuni attori stranieri trovano pure il doppiatore giusto, quindi non c’è problema in questo senso, per loro. Spero di trovarlo pur’io.

Rifaresti film tipo Ricomincio da tre?

Magari mi venissero, come… no?

Ottenne un grande successo…

Appunto, proprio per quello! Quello è stato il mio trampolino di lancio.

E la tua collaborazione con Benigni, anche lui a Cannes, prosegue?

Ci siamo visti e abbiamo in mente un progetto cinematografico ancora da definire. Vorrei prima riuscire a realizzare un film mio, anche per dare un po’ di filo da torcere ai critici italiani che vorrebbero che io scomparissi dalla scena…

Pensi di dare un dispiacere ai critici continuando a lavorare?

Facendo il film mio? Sì, sì. Ne sono sicuro.

Che musica ascolti?

Mi piacciono i cantautori italiani: Pino Daniele, De Gregori, Paolo Conte, sono quelli che ascolto di più.

E Bennato…

… Bennato… sì. Voglio dire, anche Dalla, Venditti, ma sono i primi tre nomi forse i miei preferiti.

Pensi che Splendor avrà un buon successo?

Magari… se solo sarà accolto in tutta Italia come lo è stato qui a Cannes.

The Fabelmans

Il grande spettacolo

di Marcello Moriondo

Avevo dieci anni quando andai a vedere al cinema Il più grande spettacolo del mondo (The Greatest Show on Earth di Cecil B. DeMille, 1952), Steven Spielberg sei, la stessa età in cui lo vede l’interprete del suo ultimo film: The Fabelmans. Per lui era il primo film al cinema, io ormai non li contavo già più.

Spielberg ci racconta l’evoluzione di una famiglia, i Fabelman, appunto. Un cognome che gioca sulla fantasia, basta spostare due lettere e diventa Fableman, l’uomo della fiaba. E questo narratore di fiabe è Sammy, il primogenito.

A sei anni quindi è la sua prima volta al cinema. Ma la sala è buia e lui la teme. I film sono come i sogni, lo rassicura il padre, ma a lui i sogni fanno paura. Allora il genitore racconta a Sammy la magia del cinema, delle immagini in movimento e del perché, tecnicamente, le vediamo muoversi. La sua prima lezione di cinema, prima di entrare in una enorme sala senza nessuna poltrona libera, come ai tempi in cui il cinema si guardava davvero al cinema. Del resto siamo nel 1952 e la cosa è comprensibile, le piattaforme televisive erano lontane a venire. Lo stupore negli occhi di Sammy passa in primo piano, come la sequenza che gli resterà impressa per il resto dei suoi giorni: Quella in cui Lyle Bettger corre sui binari con la sua auto per evitare l’incidente ferroviario, e la sua macchina che vola in aria per l’impatto e l’inevitabile catastrofe ferroviaria.

La seconda lezione di cinema sarà il riprodurre la stessa sequenza cinematografica col trenino elettrico e un auto-modellino, ripresa con la sua prima 8 millimetri. Da quel momento inventare o copiare storie da riprendere diventa l’occupazione preferita di Sammy, complici le due sorelle che, pur di partecipare al gioco, si sottopongono a tutti i capricci e le imposizioni del fratello neo-regista, mentre in sottofondo ascoltiamo Scott Joplin. La cosa si allarga agli amici, fino a diventare la creazione di tanti piccoli film artigianali, seguendo i generi in voga, soprattutto il western, mentre a casa la madre di Sammy (Michelle Williams) suona al piano Beethoven. Al ragazzo non basta. Cerca la perfezione persino in quelle piccole riprese, vuole vedere l’emozione negli occhi dei giovanissimi attori. Gira un film di guerra Escape to Nowhere e l’eroe piange, la musica è Raw-Hide di Link Wray & The Wraymen.

I genitori assecondano la passione del figlio, senza accorgersi che lui li osserva molto più di quanto possano immaginare. Segue l’evoluzione del loro rapporto, le loro contraddizioni, le frustrazioni, i loro segreti più intimi. I Fabelman si spostano in California, cantando in auto, insieme alle Crystals Da Doo Ron Ron.

È al college che perfeziona la sua passione per la settima arte. Ormai ha capito che, grazie al montaggio, può giocare col vero e il falso, che la realtà la puoi condizionare a tuo piacimento, facendo credere reale ciò che in effetti non è. Così riprende i suoi compagni al suono di Goodbye Cruel World di James Darren. Quindi il ballo di fine anno, con Walk on by di Burt Bacharach, dove Sammy mostra il suo sconvolgente (per alcuni) film scolastico, montato con If You Wanna Be Happy cantata da Jimmy Soul e Limbo Rock da Chubby Checker. Ormai è chiaro che il suo futuro è dietro la macchina da presa, è in possesso di tutte le nozioni atte a realizzare un film: la tecnica di ripresa, l’inquadratura, le modalità di racconto, la padronanza della separazione e manipolazione del vero e del falso, l’indirizzo che deve prendere l’esposizione dei personaggi, così da poter trasmettere le emozioni necessarie.

Spielberg racconta di aver aspettato la scomparsa dei genitori per poter prendere in mano questa storia. È troppo coinvolgente nonché emozionalmente e le verità che la sceneggiatura contiene sarebbero state poco apprezzate da loro. Però è tutto vero, ci dice, sono Michelle Williams e Paul Dano nel film, ma sono loro, i suoi genitori.

È forse il film più intimo del regista, e le emozioni che suscita credo non siano solo generazionali o di natura cinephile. È cinema puro, dalle prime immagini nella sala alle ultime bellissime che riferiscono un avvenimento reale.

La musica che accompagna lo spettatore è tutta pertinente, calata nel periodo di narrazione e nel contesto delle immagini. Oltre a pezzi già citati si può ascoltare I Got Rhythm di Gershwin, il tradizionale Down By the Stations, Overland Stage dal film L’uomo che uccise Liberty Valance, un’altra colonna sonora, The Magnificent Seven da Elmer Bernstein, Tutti Frutti, Kalinka, Erik Satie, He’s So Fine dalle Chiffons, Bach e Haydn.